Sempre più badanti provenienti dall’Est: qualche dato sulla provincia di Lecco
L’idea in base alla quale molti migranti “rompono” con le proprie origini e “abbandonano” il proprio paese con la finalità di “inserirsi” stabilmente nel paese di approdo è stata fortemente messa in discussione dalla capacità dimostrata, al contrario, da molti migranti di essere attivi simultaneamente in entrambi i luoghi, muovendosi o ‘ingegnandosi’ nel superamento dei confini politico-amministrativi propri dei singoli stati. Tale fenomeno è stato individuato nelle recenti etnografie delle migrazioni con il termine di “transnazionalismo”, per indicare il processo attraverso il quale i migranti, facendo anche uso del progresso di molti strumenti tecnologici, sono in grado di mantenere relazioni sociali, economiche, politiche e culturali tra i due contesti parallelamente.
Secondo la definizione proposta da Linda Basch, Nina Glick Schiller e Christina Szanton Blanc, il transnazionalismo è quel processo “by which immigrants forge and sustain multi-stranded social relations that link together their societies of origin and settlement. We call these processes ransnationalism to emphasize that many immigrants today builds social fields that cross geographic, cultural and political borders”.
I fenomeni migratori raggiungono una complessità tale da richiedere uno sforzo verso il superamento di modelli bipolari classici, che contrappongono ipotesi di assimilazione/pluralismo etnico a ipotesi di ritorno in patria, affinché si possa analizzare la contemporanea capacità dei migranti di essere nello stesso tempo “qui” e “lì”. Si tende a pensare che una badante italiana sia più “affidabile” di una badante convivente o badante ad ore, ad esempio, ucraina o ungherese, o svizzera, etc. questo perché si rimane legati solo alla superficie delle cose, perché si pensa troppo facilmente che, magari, una badante straniera non capisca la lingua italiana e dunque cosa le si chieda. Questo è vero solo a metà, poiché: trovare una badante autonomamente e quindi a “nero” implica un alto tasso di rischio, in quanto nessuno conosce cosa realmente quella persona faccia o abbia fatto in passato pur presentandosi come “badante professionista”; ciò significa affidarsi esclusivamente alle parole di una persona che di fatto non si conosce. Dell’Est Europa e sempre più giovani. E’ l’identikit delle badanti che lavorano in provincia fatto dagli operatori degli sportelli provinciali.
Assistenti familiari di Calolziocorte, Lecco, Barzio e Merate. Su 2.035 donne che si sono candidate come badanti il 35% sono dell’Europa dell’Est, sebbene aumentino le sudamericane, mentre diminuiscono quante provengono dall’Africa e le italiane, dal 35% del 2016 al 15% del 2020. La loro età media è tra i 41 e 50 anni, mentre fino al 2019 primeggiavano le over 50. Le badanti tra i 31 e 40 d’età sono passate dal 20 al 30%. Il settore sembra in crisi: nel 2020 le richieste sono state 247, una trentina in meno delle 276 del 2019. “Le possibili ipotesi la crisi che ha privato molte donne del lavoro spingendole verso il lavoro di cura a casa di familiari e parenti o la pandemia, che ha reso difficile l’accoglienza in casa di persone estranee al nucleo familiare”.
Dai dati leggibili emerge senza ombra di dubbio come, quello di “badante”, sia uno dei lavori più “semplici” da rimediare quando si arriva in Italia: innanzitutto la scarsa o nulla conoscenza della lingua spinge molte donne ad accettare la sistemazione presso una abitazione privata. La lavoratrice straniera avvia, dunque, la propria esperienza migratoria in Italia attraverso questo impiego e continua in molti casi, una volta acquisita esperienza, e una volta sviluppata una rete di contatti per lo più informali di collocamento nel settore, a svolgerlo presso altre famiglie. Molto spesso, infatti, queste donne hanno raggiunto, come si è evidenziato in precedenza, donne connazionali, amiche o parenti già inserite nel territorio di Modena. È chiaro che se il proprio “contatto” sul territorio è occupato in questo settore, la probabilità di essere inseriti, per mezzo del c.d. passaparola, all’interno dello stesso ambito sia molto alta. Il ruolo che la “rete”, sebbene fondamentale per i neo-immigrati alla ricerca di lavoro, gioca nell’indirizzare i propri afferenti a livello occupazionale, col rischio di rafforzarne la segregazione occupazionale189, può essere decisivo, non solo al momento della ricerca del primo impiego, ma anche come reiterazione di questo190. Oltre a ciò, lo status formale di straniere illegalmente presenti sul territorio – la maggior parte delle straniere dichiara di essere entrata in Italia col visto turistico e di essere rimasta alla scadenza, condizione definita di over-stayer – accompagnata all’impossibilità di ottenere, attraverso un incarico lavorativo, il permesso di soggiorno, rendono la scelta di questo lavoro quasi “scontata”. La “casa” del datore di lavoro è certamente un “rifugio” molto più sicuro, in quanto pressoché avulso a controlli, rispetto ad altri ambiti lavorativi.
Diverso è invece il caso delle donne più giovani, donne senza figli, o con figli piccoli rimasti in patria. Sono lavoratrici proiettate verso la possibilità di cambiare settore di attività, ad abbandonare la professione di assistente familiare, sono aperte a corsi ri-professionalizzanti, nel campo dell’informatica, in vista di lavori di segreteria o di tipo impiegatizio202. In alcuni casi sono donne orientate ad attività inerenti il settore dell’immigrazione, dove potrebbero contare sulla conoscenza linguistica come valore aggiunto, e sperano un giorno di potersi formare come mediatrici culturali. Si tratta di giovani donne fortemente motivate alla creazione di percorsi di mobilità ascendente, che usano il lavoro di assistente familiare come primario strumento di introduzione nel mercato del lavoro italiano, cercano di prepararsi a cambiare strada, nella speranza di potersi ancora “rimettere in gioco”, attraverso lavori psicologicamente e fisicamente meno gravosi, o per poter mettere a frutto le proprie competenze e i propri titoli di studio.
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